Loneliness è un termine usato per significare più cose e assai differenti tra loro. Loneliness ha un significato diverso da solitudine (solitude) e intimità (seclusion). Mentre questi ultimi indicano uno stato desiderato o ricercato come motivo di pace o di raccolta, intimità (scelte che le persone fanno liberamente perché amano stare sole, amano l’intimità), loneliness è uno stato di angoscia, l’escludersi dagli altri, dal mondo. Jill Lepore ne scrive in un articolo “The History of Loneliness”, (Storia del senso di esclusione/solitudine). Secondo i neuro scienziati il senso di solitudine risiede nel nostro antico passato di cacciatori, risale ai nostri primati. Le ricerche su loneliness hanno avuto inizio negli Stati Uniti negli anni Ottanta del secolo scorso e uno dei maggiori studiosi è stato John Cacioppo (Università di Chicago), la cui teoria evoluzionistica è stata poi verificata anche dagli antropologi dell’Università di Oxford, i quali collocano l’origine di questo stato d’angoscia, di esclusione a circa 52 milioni di anni fa, ai nostri primati, al loro bisogno di appartenere a un gruppo sociale, a una famiglia per poter sopravvivere. La separazione dal gruppo – sia il trovarsi solo o trovarsi con un gruppo di persone che non ti capiscono o che non conosci – scatena un conflitto profondo o una risposta di fuga. Secondo Cacioppo il corpo capisce di essere solo o essere con estranei e lo avverte come emergenza. “Con il trascorrere dei millenni questa ipervigilanza in risposta all’isolamento viene incorporata nel nostro sistema nervoso e produce ansietà, che noi associamo con loneliness”.
I sintomi di questo stato sono la pressione alta, l’accelerazione cardiaca, l’affanno, i disturbi del sonno. L’agire di coloro che soffrono di loneliness è condizionato dalla paura e diventa difensivo; si allontanano dalle persone con le quali, invece, vorrebbero comunicare. Alcuni studiosi considerano loneliness una epidemia, non diversa, per esempio, dall’epidemia dell’obesità. Dietro il senso di esclusione/solitudine risiedono una serie di problemi come ansietà, violenza, traumi, apatia, depressione, ecc. Il dibattito è molto vivace e le letture interpretative sono diverse e discordanti. La storica inglese Fay B. Alberti nel suo libro (“A Biography of Loneliness; The History of an Emotion”, Oxford) definisce loneliness come “un sentimento cosciente di estraniamento o separazione sociale da altri” e si oppone all’idea che sia universale, al di là della storia, e che sia la fonte di tutto ciò che ci fa soffrire. E obietta che tale condizione (loneliness) non esisteva prima del diciannovesimo secolo, almeno non nella forma cronica. Ciò non significa che le persone molto povere, sole, ammalate, reiette non fossero sole; è che dal momento che non era più possibile sopravvivere senza gli altri, senza essere vincolato a altre persone per legami di affetto, lealtà, dovere, l’estraniamento (lonelines) era una esperienza di passaggio. La studiosa argomenta che forse i monarchi erano soli in modo cronico, ma per le persone comuni, il cui vivere era fatto di una rete intricata di dipendenza, scambi, condivisioni abitative, essere cronicamente o disperatamente soli significava essere vicini alla morte. La parola loneliness non appare in Inghilterra prima del 1800. L’estraniamento moderno (loneliness) nella visione di Frey Alberti, è figlio del capitalismo e del secolarismo. “Molte delle divisioni e delle gerarchie che si sono sviluppate fin dal Diciottesimo secolo – tra il sé e il mondo, l’individuo e la comunità, il pubblico e il privato – sono state naturalizzate attraverso la politica e la teoria dell’individualismo”. Esiste – afferma – una coincidenza: contemporanea alla teoria dell’individualismo è emersa la parola loneliness. Il libro di Alberti è un libro di storia culturale, e la studiosa dimostra che l’epidemia di loneliness esiste ed è correlata con il vivere da soli. Il viver soli fa sentire la solitudine o le persone che soffrono di solitudine vivono sole; è difficile dire quale delle due venga prima, ma la preponderanza delle verifiche supportano la prima. È la forza della storia (sono i fatti), non lo sforzo di una scelta che guida le persone a vivere sole. Questo è un problema per chi cerca di sconfiggere l’epidemia della loneliness, perché è la forza della storia che è inarrestabile. Secondo studi demografici longitudinali, prima del Ventesimo secolo le famiglie composte da una persona erano circa il 5%. Tale percentuale cominciò a crescere intorno al 1910, guidata dall’urbanizzazione, dal declino del tasso di natalità e dalla sostituzione della famiglia tradizionale multigenerazionale con la famiglia nucleare. David Riesman, nel suo libro “The lonely Crowd”, scrive che nel 1950 le famiglie formate da una sola persona erano il 9%.
Un altro studioso, Enric Klinenberg (“Going solo: the extraordinary rise and surprising appeal of living alone”, 2012) sostiene che l’accelerazione avviene negli anni Sessanta del Novecento quando l’incremento delle famiglie composte da una sola persona cresce percentualmente a un tasso elevato “per la prima volta nella storia umana, un gran numero di persone, di tutte le età in tutti i luoghi, di qualsiasi convinzione politica, hanno cominciato a assestarsi come figli unici”. L’autore è incerto se questo sia un trionfo o più plausibilmente un disastro; tuttavia avviene, fra l’altro incentivato dai divorzi elevati, dalla decrescita delle nascite e dall’allungamento della vita. Con l’aumento della famiglia nucleare, gli anziani iniziarono a risiedere da soli. Klinenberg osserva che la letteratura medica sulla loneliness iniziò a emergere nel 1980, quando i decisori politici erano allarmati e impegnati a risolvere i problemi dell’incremento dei senza tetto che è “la disperata condizione dell’essere una singola persona della famiglia”. Non mancano approfondimenti e analisi sulla contemporanea diffusione dei computer e delle connessioni sempre più alla portata di un numero crescente di persone e, più in generale, alla diffusione delle tecnologie della comunicazione che dagli anni Cinquanta in poi aiutarono il vivere da soli. Radio, TV, internet e media sociali ti fanno sentire a casa on line (Klinenberg). Già all’inizio del 2000 Robert Putman (“Bowling Alone”, 2000) teorizzò – 4 anni prima del lancio di Facebook – che il declino dei legami di comunità in America era il corrispettivo dell’esclusione (loneliness). È sempre più diffusa la convinzione che il successo dei media sia il prodotto dell’epidemia del loneliness; per altri è un rimedio, per altri ancora un collaboratore. Anche l’Economist ha dichiarato che loneliness è la lebbrosi del 21° secolo. È un fenomeno mondiale, tuttavia c’è una unanimità di consensi nel ritenere che è meglio vivere soli in nazioni con forti supporti sociali, poiché avere oltre a internet un efficace salvagente sociale offre sicurezza. Quando è iniziato il grande confinamento sociale a causa del coronavirus è apparso evidente che zoom era meglio di niente, che le connessioni erano utili. Ma per quanto tempo? E cosa può succedere se si spezzano improvvisamente le connessioni internet? È un test terribile che non misura solo la capacità degli esseri umani di sopportare la solitudine/loneliness, ma apre scenari ignoti. Interrogativi che si pongono anche coloro che indagano sugli effetti psicologici e sul benessere psicofisico delle tecnologie e dei social media negli adolescenti e nei bambini.
(su questo vedi: Jill Lepore, The History of Loneliness, in The New Yorker, April 6 2020)