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Quarantena e violenza sulle donne

L’allarme per l’aumento della violenza domestica contro le donne a causa del confinamento è stato spesso segnalato dai media in tutto il mondo.   Nel mondo una donna ogni tre è vittima di violenza fisica o sessuale da parte del proprio partner. E questa violenza aumenta in ogni tipo di emergenza, alimentata dalle angosce e dai timori che concernono la malattia e il senso dell’esistenza, dalla frustrazione, dai tempi di convivenza più lunghi e spesso dall’abuso di alcol favorito dall’inattività. Inevitabile che il lockdown conseguente alla pandemia sia stato un trigger potente di questa drammatica piaga.                   In Cina, i primi dati relativi ai casi riportati dalla polizia di Jingzhou, nel febbraio del 2020, segnalavano che i casi erano triplicati in rapporto allo stesso periodo del 2019. L’associazione dei Rape Crisis Centers in Israele ha evidenziato un aumento del 40% dei casi di violenza domestica durante la pandemia Covid 19.

Una review pubblicata su Lancet, a inizio marzo, ha valutato tutti gli studi (oltre 3000) effettuati in relazione a tutti i periodi di quarantene avuti nel passato e il rischio di violenza domestica. Nella review sono stati inclusi 24 studi e il risultato ha evidenziato un aumento della violenza domestica, particolarmente se la quarantena era troppo prolungata.   Anche in Svizzera il problema è quanto mai attuale. Già prima della pandemia, l’Ufficio Federale della Statistica (OFS) dichiarava che 51 atti di violenza domestica erano segnalati ogni giorno fra i quali un tentativo di omicidio per settimana e un omicidio effettuato ogni due settimane. Tra le vittime che si sono presentate nei servizi d’urgenza, secondo i dati retrospettivi del Canton Berna, il 94% erano donne. Ed è ipotizzabile che vi sia un numero elevato di casi non repertoriati, in quanto unicamente il 20% di tutti i casi legati alla violenza domestica sono registrati dalla polizia. E il confinamento della pandemia rende ancora più difficile per le vittime segnalare gli abusi.

Premesso che la violenza contro le donne ha le radici nella cultura maschilista secolarizzata che porta a privilegiare la struttura patriarcale, a legittimare la violenza dell’uomo sulla donna e a sviluppare sindromi narcisistiche gravi, il ricorso alla violenza spesso è legato a un vissuto di impotenza nel gestire un conflitto, perché l’aggressore non si sente capace di utilizzare la comunicazione o altre forme e strategie per far valere il proprio punto di vista. Ricorre quindi a comportamenti che mirano a controllare la relazione e a intimorire e a svalorizzare l’altra persona con lo scopo di dominarla attraverso forme di manipolazione psicologica che quasi sempre scattano all’interno di relazioni e rapporti coniugali o di convivenza malati. Sono manipolazioni caratterizzate da un incastro vittima-carnefice, nei quali uomini gelosi o ossessionati dal controllo isolano le proprie compagne rendendole insicure e depresse. Tra queste, una delle tecniche più diffuse è quella del gaslighting, che utilizza critiche quotidiane, battute cattive, offese indirette, malumori e costanti insoddisfazioni, per portare la vittima a sentirsi perennemente in debito, in colpa e dipendente dal proprio partner. Un’altra tecnica di acuta cattiveria, messa in atto dai narcisisti perversi, è quella che si maschera da amore possessivo e geloso per imprigionare il partner in una relazione tossica. Un vero e proprio massacro psicologico in cui la vittima si convince di essere incapace e piena di difetti. A questi abusi psicologici si sommano spesso quelli economici e sessuali. Purtroppo risulta molto difficile riconoscere il potenziale manipolatore, perché si tratta quasi sempre di persone apparentemente normali.

È importante mettere in evidenza come molte vittime, quando entrano in questo circuito di violenza psicologica, hanno angoscia e addirittura timore di uscirne, perché sono talmente condizionate nel proprio senso di inferiorità, da pensare che l’aggressore abbia ragione. La svalorizzazione programmatica produce infatti nella vittima un senso profondo di insicurezza e di inquietudine e il timore di non farcela da soli.   La violenza domestica si ritrova in tutti i contesti sociali, economici e culturali indipendentemente dall’età e dal sesso, e si osserva anche negli uomini e nelle relazioni omosessuali.

Perché il Covid-19 ha fatto aumentare la violenza sulle donne? Le ragioni sono molteplici.

  • Si è modificata la rete di protezione sociale, con significativa riduzione dell’accesso ai servizi. Le misure di distanza sociale hanno portato le persone a rimanere a casa, e il confinamento aumenta il rischio della violenza domestica, poiché i membri della famiglia rimangono molto tempo a casa in contatto fra di loro.
  • Lo stress economico e il potenziale rischio di perdere il lavoro aumenta l’irritabilità e la rabbia sociale.
  • Si sono ridotti, se non azzerati, i contatti con i membri della famiglia e gli amici che potrebbero aiutare le donne nei casi di violenza domestica.
  • L’accesso ai servizi è molto limitato.
  • Il peso dell’aumento del lavoro domestico durante la pandemia e la riduzione dei mezzi di sostentamento e della possibilità di guadagnare lo stipendio, può aumentare lo stress familiare, con una potenziale di aumento significativo dei conflitti e delle violenze.
  • Il perpetratore degli abusi e delle violenze può usare le restrizioni dovute al Covid-19 per esercitare un maggiore potere di controllo sul partner e sui figli riducendo l’accesso ai servizi, agli aiuti, ai supporti psicosociali da parte delle reti sociali formai e informali, addirittura, lo si è visto, impedendo l’accesso a oggetti necessari quali il sapone e il disinfettante.
  • Gli aggressori possono esercitare il controllo diffondendo informazioni sbagliate in relazione alla malattia per stigmatizzare il partner.

Purtroppo non è facile prevenire e intervenire nei casi di violenza domestica. Proprio per il complesso di inferiorità conseguente agli abusi costanti, le vittime raramente denunciano, e se individuate spesso difendono il persecutore, perché sono state condizionate a ritenere che la violenza sia una forma d’amore e perché la loro autostima è talmente bassa da convincerle che non potranno farcela senza il loro partner.

Bisognerebbe quindi che chi opera nei servizi sanitari fosse sensibilizzato a riconoscere i sintomi e depistare i fattori di rischio. Per esempio, nei disturbi cronici, quali colon irritabile, chronic pelvic pain, fissurazioni anali croniche, vertigini, se non c’è una causa evidente potrebbe essere sottostante una violenza domestica, e sarebbe utile indagare, anche se purtroppo non è facile se la vittima non collabora. Altro campo da indagare è quello ginecologico con lesioni fisiche durante la gravidanza o la presenza di ripetute infezioni sessuali trasmissibili.

In relazione a una sofferenza psicologica non spiegabile, dobbiamo pensare a una violenza domestica quando vi sono problemi emotivi continui, quali stress, ansia, depressione. Un’altra spia sono i comportamenti autolesivi, quali abusi di alcool di droghe o di farmaci, e i pensieri o i tentativi di automutilazione e di suicidio.

Ci si può chiedere se l’uscita dal confinamento allevierà la situazione per le donne che durante il lockdown hanno subito un peggioramento della violenza domestica. La risposta è difficile, perché se da un lato l’uscita da casa allevierà il controllo patologico da parte dei persecutori, dall’altra i comportamenti ripetuti tendono a radicarsi, e l’insicurezza di sé sperimentata nel lockdown potrebbe perpetuarsi.

Per aiutare le donne a reagire, è necessaria una forte campagna sociale di comunicazione, che da un lato le renda consapevoli della loro condizione e le aiuti a reagire, dall’altro sensibilizzi i membri della famiglia e gli amici ad aiutarle. Quasi sempre famigliari e amici sospettano gli abusi, ma non intervengono per non interferire con gli equilibri famigliari, per un malinteso rispetto della libertà individuale, o perché non sanno a chi rivolgersi. Gli enti pubblici dovrebbero perciò creare una campagna di divulgazione rivolta a tutti i cittadini per stimolare l’attenzione alla piaga delle violenze domestiche e aiutarli a riconoscere le vittime. Bisognerebbe inoltre creare una sorta di vademecum con i consigli per tutta la famiglia in caso la violenza venga riconosciuta.

I sanitari, medici di famiglia e medici di pronto soccorso, in primis, dovrebbero valutare quali sono i fattori di rischio del crescendo della violenza, nel corso degli ultimi sei mesi, quali la presenza di armi da fuoco a casa, il consumo di alcool o droghe, le minacce verso l’altro, il tentativo di strangolamento, un’eccessiva gelosia, problemi sociali familiari o finanziari, la dipendenza psicologica, fisica, o sociale della vittima.

In particolare, chi è vittima di violenza domestica, fisica e psicologica, dovrebbe avere pronto un elenco con il numero di telefono dei vicini, degli amici, della famiglia; con tutti i numeri d’urgenza – soccorso medico, polizia, vigili del fuoco; con le hot line specifiche per la violenza, e con le case protette. Dovrebbe assicurarsi l’accesso ai documenti importanti, che spesso rimangono in mano a chi esercita la violenza, e ai soldi – quasi sempre le vittime non hanno né conto in banca, né carta di credito e sono in balìa del loro partner per qualsiasi spesa, non sono quasi mai a conoscenza dell’entità dei risparmi familiari e a volte nemmeno delle banche in cui sono depositati. E dovrebbe aver pronta una via d’uscita veloce in caso di peggioramento della situazione.

Le donne che non osano denunciare la violenza e magari in caso di flagranza la negano, sono in realtà ben consapevoli di subire abusi. Prepararsi una via d’uscita potrebbe essere già un modo di reagire psicologicamente, e di sentirsi protette nel caso gli abusi si aggravino.

 Questo articolo appare in collaborazione con l’Associazione BrainCircleItalia (www.brainforum.it), che ha dedicato all’emergenza Covid-19 il sito www.controvirus.it.  

 Michele Mattia è psichiatra e psicoterapeuta, docente Università dell’Insubria, Presidente ASI-ADOC 

Foto: YASUYOSHI CHIBA / AFP

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