I dati e le proiezioni ci dicono che saranno le donne a soffrire di più per le conseguenze economiche del Covid 19.Si stanno moltiplicando gli appelli e gli studi per contrastare la perdita di lavoro delle donne. Alcune ricerche hanno già messo in rilievo che la crisi economica causata dalla pandemia Covid-19 penalizzerà prevalentemente la manodopera femminile, al contrario della crisi del 2008 che penalizzò di più i lavori svolti dagli uomini. Questa tendenza del mercato del lavoro italiano si va ad aggiungere ad un drammatico tasso di disoccupazione femminile, assai elevato ante virus. La valorizzazione del lavoro di cura, la rivalutazione delle mansioni essenzialmente femminili, che, durante la pandemia hanno sostenuto i malati, i cittadini, le famiglie, devono diventare i temi su cui basare la “ricostruzione” da affrontare nel post pandemia. Riportiamo una prima proposta:
“Le scuole di ogni grado e i servizi per l’infanzia sono ormai chiusi da un mese e mezzo, due in alcune zone del Paese. Da allora, i bambini sono a casa con i genitori: genitori che lavorano entrambi in smart -working, nel migliore dei casi, o che sono stati messi in cassa integrazione con una sostanziale riduzione di stipendio e aumento di preoccupazioni per il futuro. O, ancora, che il lavoro lo hanno perso. Le misure messe in campo dal Governo prevedono 15 giorni di calendario di congedo parentale, retribuito al 50 per cento e fruibile da un solo genitore, oppure 600 euro di voucher babysitter. In un momento in cui sappiamo non essere facile trovare soluzioni, non possiamo sottrarci alla responsabilità di dire che no: questa non è né può in alcun modo essere considerata una soluzione. E nemmeno la proroga di queste due misure per un altro mese sarà sufficiente.
Dobbiamo dirlo non per andare contro a un Esecutivo che, lo sappiamo, sta mettendo in campo ingenti risorse pubbliche per affrontare un’emergenza che non ha precedenti nella nostra storia recente, ma perché non possiamo permettere – né, come Paese, possiamo permetterci – che nell’emergenza avvenga, sotto silenzio, un arretramento sostanziale nella già precaria situazione della popolazione femminile italiana.
C’è chi spera che questa reclusione forzata di tutta la famiglia porterà a una più equilibrata condivisione dei compiti nella gestione familiare, chi si augura che la sperimentazione massiccia del lavoro da remoto (che non è smart -working quanto, piuttosto, telelavoro spinto) possa dimostrare quanto sia possibile e auspicabile permettere ai dipendenti di lavorare in smartworking qualche giorno a settimana, dando loro (a tutti: uomini e donne) la possibilità di conciliare meglio i tempi del lavoro con quelli della vita privata.
Tutto è possibile, ma il desiderio di essere ottimisti non ci può far arrivare impreparati all’eventualità che, invece, la situazione evolva nel senso esattamente opposto: un peggioramento dei diritti e delle condizioni di vita e di lavoro delle donne. Del resto, veniamo da una situazione, prima della comparsa del COVID-19, che non era certo confortante in questo senso: una donna occupata su due (una su tre al Sud), spesso con contratti precari e part-time che non permettono una reale autonomia economica, un elevato differenziale di genere nei salari, un profondo disequilibrio nella suddivisione dei lavori di cura nelle famiglie e poi carenza di posti nei nidi e rette troppo alte, orari di scuole e servizi per l’infanzia sempre più corti di quelli di una normale giornata di lavoro e la lista sarebbe ancora lunga. Allora no, non siamo tranquilli. Siamo, invece, estremamente preoccupati.
E preoccupate. Il rischio è che le donne assumano sulle loro spalle il carico della gestione dei figli, della casa, del proprio lavoro quando ancora c’è, pagando un costo elevato in termini di stress e, purtroppo, lasciando spesso per strada il proprio posto di lavoro. Sì, le donne. Perché, come tutti coloro che credono e lavorano per il rafforzamento di una genitorialità condivisa, vogliamo usare la parola “genitori”, parlando di questa situazione di difficoltà, ma sappiamo per prime che, nel concreto delle scelte della stragrande maggioranza delle famiglie, è delle mamme che stiamo parlando. Quindici giorni di congedo non bastano, in due mesi di chiusura delle scuole. Men che meno basteranno altri 15 su quella che si prospetta una chiusura di scuole e asili, per altri quattro mesi almeno. Il 4 maggio ripartirà una buona parte di attività produttive del Paese e nelle settimane successive continuerà la riapertura anche delle altre. Molte attività estranee ai servizi essenziali hanno già riaperto in sordina, autocertificandosi dai Prefetti. I genitori, insomma, torneranno a lavoro in sede e qualcuno dovrà restare a casa coi figli: i nonni, pilastro del welfare familiare, saranno probabilmente fuori gioco (per il rischio contagio e conseguenze maggiormente pericolose per persone sopra i 55 anni) e assumere una babysitter adesso comporta non poche difficoltà, non solo economiche ma anche in termini di difficoltà di ricerca e sicurezza per la salute di tutte le persone coinvolte. Chi rimane? Su chi stiamo, implicitamente, contando per la gestione dei quasi 8 milioni di bambini mentre predisponiamo una ripartenza dell’economia? Ancora una volta, sulle donne. Saranno loro, in gran parte, a prendere anche i prossimi 15 giorni di congedo parentale straordinario, perdendo il 50% della retribuzione e probabilmente, la sua totalità nei restanti tre mesi e mezzo che il congedo non copre.
Trovare soluzioni è tutt’altro che semplice, lo abbiamo detto e ne siamo consapevoli. Lo stesso tema della riapertura di centri estivi ed oratori gestiti dal terzo settore, pilastro del sociale e del volontariato del nostro Paese, ci appare di complicata gestione. È difficile credere che se non riusciamo ad organizzarci per distanziare socialmente i bambini nella scuola, lo si possa chiedere e ottenere miracolosamente nei centri estivi. Certo si possono investire risorse, si possono assumere le tante ed i tanti precari del settore per organizzare il servizio, il bel tempo può aiutare, ma con il brutto tempo li facciamo stare nuovamente a casa? Abbiamo locali ampi e sufficienti per evitare l’assembramento? Riapriremo le aule delle scuole? Ma le scuole, sembra ormai chiaro anche nella momentanea assenza di provvedimenti ufficiali, resteranno chiuse fino a settembre. E allora che fare se presto non si troveranno soluzioni che permettano ai bambini di essere impegnati durante la giornata e ai genitori, in particolare alle mamme, di riprendere il lavoro?
Non si può chiudere gli occhi su una tragedia annunciata, sperando che in qualche modo si sistemi da sola: vorrei che gli occhi li tenessimo tutti ben aperti e cominciassimo a porci, collettivamente e pubblicamente domande centrali. Come usciranno economicamente le donne da questa emergenza con cui dovremo convivere per un bel po’? Riusciranno a mantenere il posto di lavoro? Il blocco dei licenziamenti ottenuto nel primo Decreto di marzo verrà prorogato e sarà sufficiente a proteggerle dall’interruzione del rapporto?
Il primo impegno che è necessario prendere, subito, è che, se scuole ed asili non riapriranno, ai genitori che si trovano a dover stare a casa per badare ai propri figli, va riconosciuta questa necessità e garantita la retribuzione. Come?
Lancio una proposta. L’Art. 26 comma 2 del Decreto Legge n. 18 (convertito in Legge il 24 aprile) prevede che ai soggetti “deboli”, con disabilità grave, immunodepressi o con un rischio derivante da patologie di vario genere attuali o pregresse, se impossibilitati a continuare a lavorare in smart working (modalità che in questi casi va privilegiata), venga riconosciuta la possibilità di assentarsi dal lavoro, equiparando l’assenza a quella per ricovero ospedaliero (decisamente retribuita meglio del congedo al 50%). È una norma che andrebbe scritta meglio. Va chiarito che i certificati medici previsti possano essere rilasciati anche dal medico competente (aziendale) o dal medico di base che conosce tutta la storia medica della persona. Possiamo considerare, solo per questo periodo, i bambini come soggetti deboli da seguire e tutelare per evitare che vengano contagiati e siano loro stessi veicolo di contagio? E se la risposta è sì, al genitore che deve stare a casa dal lavoro, possiamo riconoscere l’indennità appena descritta?
Lo so, può sembrare una analogia di cattivo gusto, equiparare i bambini a soggetti che hanno patologie gravi o invalidanti ma l’intento è tutt’altro: è un tentativo di trovare soluzioni. È una proposta fattibile che consegniamo al dibattito di chi cerca di trovare strumenti e possibilità che permettano alle tante famiglie, alle tante donne, di non impoverirsi sempre di più. Avete altre proposte? Ottimo, io sono pronta ad ascoltarle e a confrontarmi.
Ma cara Ministra Bonetti, cara Ministra Catalfo, caro Presidente Conte, le nostre donne davvero non meritano di non essere viste. Di essere considerate un danno collaterale, oggetto della speranza che si possano risollevare da sé. Dobbiamo scegliere di vedere la situazione di grave rischio in cui versano, per poterle aiutare adesso, e non solo quando non avranno più un lavoro. E non si tratta solo delle mamme che rischiano il posto di lavoro. C’è un altro bacino immenso da supportare ed aiutare: le tante, troppe, donne precarie; quelle con contratto a part-time involontario delle mense scolastiche che dal 23 febbraio sono e saranno a casa con un ammortizzatore sociale che, se avevano una retribuzione mensile lorda di 800€ (P.T. 30 ore), ammonta a 602€ mensili; le tante disoccupate, in cerca di un’occupazione che nei prossimi mesi sarà difficile trovare e potremmo continuare a fare esempi reali.
Bisogna buttare giù tutto ciò che fino ad adesso abbiamo considerato assodato, sfidare tutti gli “impossibile” fino ad adesso granitici e provare a pensare in modi nuovi, straordinari, così come è straordinaria la situazione che stiamo vivendo. In Italia non mancano le professionalità in grado di ideare strumenti e scenari realizzabili, preservando la salute pubblica. Per farlo, serve che il Governo dichiari pubblicamente che questa crisi rischia di avere conseguenze negative spropositate sulle donne e si impegni per adottare, in tutte le politiche e gli strumenti che metterà in campo, una prospettiva di genere per impedire che questo accada. Proteggere il lavoro e le retribuzioni delle donne oggi è il compito e la responsabilità inderogabile di un Paese responsabile che intende ancora guardare al futuro.”
IVANA VERONESE SEGRETARIA CONFEDERALE UIL, CON DELEGA AL LAVORO E ALLE PARI OPPORTUNITÀ Pubblicato su la 27esima ora