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Alzheimer: conoscere per approfondire

Si parla sempre di più di Alzheimer, detto anche morbo di Alzheimer, demenza presenile di tipo Alzheimer, demenza degenerativa primaria di tipo Alzheimer. E’ la forma più comune di demenza degenerativa progressivamente invalidante con esordio prevalentemente in età presenile (oltre i 65 anni). Per demenza si intende una perdita significativa delle funzioni mentali superiori (memoria, linguaggio, intelligenza, capacità di controllo del comportamento, orientamento spaziale, attenzione ecc.) che ha ricadute sulle attività della persona determinando perdita di autonomia con un andamento progressivo nel tempo.

La malattia di Alzheimer fu descritta per la prima volta nel 1906 da Alois Alzheimer, neuropsichiatra tedesco, in una donna di 51 anni che presentava perdita della memoria, cambiamento del carattere, delirio di gelosia, incapacità a provvedere alle cure domestiche.

Fino agli anni ’70 si ritenne che la malattia potesse colpire solo le persone al di sotto dei 65 anni: si parlò quindi di “demenza presenile. Solo negli ultimi decenni si è accertato che la malattia di Alzheimer non è esclusiva dell’età presenile, ma anzi è tanto più frequente quanto più aumenta l’età. La frequenza in Italia dagli ultimi rapporti del 2018 è di circa il 7% nelle persone che hanno superato i 65 anni, tale frequenza aumenta nettamente negli ultraottantenni al 30 %. Si stimano circa 1.250.000 persone affette da questa malattia di cui 600.000 con demenza e circa 3.000.000 sono le persone coinvolte direttamente o indirettamente nell’assistenza dei loro parenti. L’aumento progressivo della popolazione anziana potrà determinare una percentuale maggiore di persone che si ammalano di questa malattia.

Sono stati ricercati e definiti alcuni fattori di rischio per l’insorgenza dell’Alzheimer: il più importante è sicuramente l’età, poiché la degenerazione e atrofia delle cellule cerebrali avviene in tutte le persone con l’avanzare degli anni, ma nell’Alzheimer questo avviene più velocemente. Altri fattori di rischio identificati sono il livello di istruzione, le relazioni sociali, la famigliarità. E’ stato dimostrato che una bassa scolarità e la scarsa socializzazione e affettività negli anziani pone un maggior rischio di sviluppare la malattia, per quanto riguarda la famigliarità, non va confusa con l’ereditarietà genetica, molto rara, ma con una maggior probabilità di ammalarsi se nella famiglia ci sono casi di Alzheimer.

E’ anche segnalato che le donne si ammalano più frequentemente degli uomini, ma questo dato non è stato ancora validato poiché le donne da un lato vivono mediamente più a lungo degli uomini e l’età come evidenziato, è il fattore di rischio attualmente più importante, dall’altro, rappresentano una popolazione più fragile perché più anziana, più sola, meno istruita. Recentemente grazie a due studi scientifici presentati durante i lavori dell’Alzheimer’s Association International Conference che si è svolta dal 14 al 18 luglio 2019 a Los Angeles, è stato individuato un altro motivo per cui le donne risultano più soggette al rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer. La prima delle due ricerche, portata avanti da un’equipe scientifica della Vanderbilt University di Nashville, si è concentrata in particolare sugli effetti di una proteina denominata tau che, assieme alla proteina amiloide, ricopre un ruolo fondamentale nella coesione dei microtubuli cerebrali e nella formazione di placche fibrotiche. Per tale studio sono state analizzate centinaia di risonanze magnetiche di uomini e donne e la distribuzione della proteina tau.

Gli studiosi hanno scoperto che ci sono delle differenze tra maschi e femmine nel modo in cui la proteina tau si diffonde nel cervello. Le donne hanno infatti una migliore connettività tra le aree del cervello dove si forma la proteina tau, cosa che lo rende più a rischio di una diffusione più rapida della proteina, e quindi di declino cognitivo.

L’altro studio, condotto dall’università di Miami, ha invece rilevato la presenza di alcuni geni specifici, negli uomini e nelle donne, che potrebbero essere collegati al rischio di Alzheimer. La ricerca in questo senso è in una fase precoce e non si può ancora determinare se potrà dare risposte utili per identificare i soggetti a rischio. 

In un numero estremamente limitato di famiglie, la malattia di Alzheimer si presenta col carattere di malattia genetica dominante. I membri di tali famiglie possono ereditare da uno dei genitori la parte di DNA (struttura genetica) che causa tale malattia. Mediamente, la metà dei figli di un genitore malato erediterà la malattia, con esordio ad un’età relativamente bassa: di norma, tra i 35 e i 60 anni. Nell’ambito di una stessa famiglia, l’età d’inizio è discretamente costante. E’ stato scoperto un collegamento tra il cromosoma 21 e la malattia di Alzheimer. Poiché, la sindrome di Down è causata da un’anomalia su questo cromosoma, i soggetti Down hanno maggiori probabilità di ammalarsi se raggiungono la mezza età, anche se non appaiono tutti i sintomi della malattia.

La diagnosi della malattia di Alzheimer è possibile anche nella fase precoce della malattia, quando cioè si manifestano i primi sintomi. Una diagnosi tempestiva è estremamente importante per informare in modo corretto e completo i familiari, per permettere alla persona ancora consapevole di prendere decisioni sul proprio patrimonio e sul proprio futuro, ed inoltre per programmare gli interventi assistenziali ed anche per distinguere la malattia di Alzheimer da altre forme di demenze ed infine per impostare al più presto il trattamento farmacologico.

La diagnosi è possibile tramite esecuzione di esami tra cui alcuni esami del sangue (per escludere malattia generali che possono influenzare le funzioni cognitive), esami radiologici come TAC, Risonanza Magnetica, PET e una valutazione neuropsicologica per valutare le funzioni cognitive e di seguirne l’evoluzione nel tempo.

La diagnosi può essere fatta da un neurologo, un geriatra, uno psichiatra, con l’aiuto dello psicologo per la valutazione neuropsicologica. È bene rivolgersi a specialisti qualificati e a centri diagnostici specifici. Un adeguato percorso diagnostico è necessario poiché, oltre alla malattia di Alzheimer, esistono moltissime altre cause di demenza, alcune anche trattabili con terapie e interventi specifici.

Molto importante è una diagnosi accurata nelle persone più giovani, fra i 40 ei 65 anni, spesso ancora in attività lavorativa e con figli adolescenti, in cui l’impatto della malattia non correttamente diagnosticata può avere gravi conseguenze.

Le ricerche in corso per trovare terapie efficaci per l’Alzheimer sono numerose, ma i risultati finora ottenuti vanno consolidati e validati. Con i farmaci a disposizione si può ottenere solo un parziale miglioramento dei sintomi che perdurano per un tempo variabile, determinando un rallentamento nell’evoluzione del quadro clinico della malattia di Alzheimer. Ci sono farmaci specifici a disposizione con principi attivi che funzionano come inibitori.

Un’altra via di ricerca attiva è quella che punta sullo sviluppo di una risposta immunologica contro la malattia cercando di sviluppare un vaccino in grado di contenere la produzione di b-amiloide (la sostanza che si aggrega a formare le placche a livello cerebrale).

A questi farmaci se ne possono aggiungere diversi altri per problemi specifici che la persona può presentare (rischio vascolare, carenze vitaminiche, disturbi endocrini e metabolici). Inoltre, nel caso che il paziente presenti disturbi del comportamento, insonnia, depressione, ansia, aggressività, si possono utilizzare diversi psicofarmaci, sotto controllo del medico di medicina generale e dello specialista.

Così come è estremamente importante lo sviluppo di ricerche volte ad identificare le possibili cause determinanti l’insorgere della malattia, la messa a punto di nuovi farmaci per la demenza di Alzheimer è un campo in grande sviluppo, con la formulazione di principi attivi che aiutino a prevenire, a rallentare la malattia e a ridurne i sintomi.

Ma allo stato attuale, in attesa di risposte scientifiche, prosegue e si sviluppa tutto un campo di terapie non farmacologiche proposte per il trattamento della demenza di Alzheimer, come ad esempio la terapia di orientamento alla realtà (ROT) che è quella per la quale esistono maggiori evidenze di efficacia (seppure modesta). Questa terapia è finalizzata ad orientare il paziente rispetto alla propria vita personale, all’ambiente e allo spazio che lo circonda tramite stimoli continui di tipo verbale, visivo, scritto e musicale.

Ma vedremo nel prossimo articolo come sia importante in questi malati un approccio modulato sul loro comportamento e sui loro limiti tramite l’utilizzo espressivo e il linguaggio poetico.

 

 

 

 

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