Verona: Manifesto degli stati generali delle donne
Aprile 10, 2019
Alimentazione e qualità della vita nella aging society
Aprile 10, 2019
Mostra tutto

Il corpo malato: riflessioni di un medico

La riflessione sul corpo malato tocca alcuni punti e momenti topici che il medico incontra nel suo percorso lavorativo. L’incontro, l’ascolto, la comunicazione sono cardini di un inizio di relazione il cui esito non è certo. In particolare, nel campo dove io opero anche se numeri e percentuali di guarigione sono noti, per quel specifico malato non è del tutto chiaro come procederà il percorso della malattia, anche se in certi casi purtroppo si è consapevoli che il termine inevitabile ci sarà.

E’ parso importante quindi partire dalle difficoltà che si incontrano e appare cruciale in campo oncologico, così come in quello delle malattie degenerative neurologiche o cardiache, affrontare il momento della comunicazione della diagnosi, proprio perché si determina la consapevolezza nel malato che il corpo, il suo corpo non è più integro, qualcosa si è rotto. Molto in questo campo è modulato e costruito con l’esperienza, esperienza spesso derivata da esempi ostensivi di ‘maestri’ (vedremo poi se ce ne sono ancora), determinata dall’educazione culturale ricevuta, dall’ambiente in cui si è vissuti e da come tutto questo bagaglio è stato assimilato. Ancora oggi molto scarsa è la formazione che si riceve durante gli studi universitari e troppo incentrati sull’acquisizione di saperi tecnici sono i brevi tirocini post- laurea. Guardando a questo proposito i programmi formativi delle Università di Medicina Statale e Bicocca attuali, la prima propone un programma molto simile a quello che ho seguito io molti anni fa, la seconda introduce corsi con uno sguardo e un approfondimento umanistico-psicologico.

I momenti difficili, ad esempio quello della comunicazione della diagnosi, richiedono un’acquisizione di consapevolezza e una formazione psicologica a cui spesso i medici non sono formati, a meno che non sentano la necessità di un percorso psicoterapeutico personale. L’approccio è spesso incentrato sulla malattia e il tempo sempre più contratto limita l’approfondimento di ciò che contiene quel corpo malato, la persona nel suo insieme. Comunicare una diagnosi non è solo descrivere una malattia, gli esami che devono essere eseguiti per definirla in tutti i suoi aspetti, proporre la terapia opportuna da iniziare, ma è anche assistere e contribuire ad un cambiamento epocale nella vita della persona, una persona di cui non si conosce nulla, muovendosi direi alla cieca senza aver idea del mondo di cui fa parte e in cui si sta intervenendo. Il periodo che si apre davanti porterà a modificazioni dell’organizzazione della vita privata e lavorativa del paziente. Porterà a difficoltà di gestione del proprio corpo rispetto alle attività quotidiane, ai rapporti di relazione. In particolare, se questo corpo darà dei segni visivi e inequivocabili di qualcosa di anomalo, se ci sarà dolore, se ci sarà deformazione o menomazione, se ci saranno effetti visibili degli esiti delle terapie. Pensiamo ad esempio alle mastectomie, alle nefrostomie, colostomie, all’alopecia. Si instaura un rapporto, ci si augura empatico, tra diseguali, un rapporto inevitabilmente squilibrato e asimmetrico dove da una parte c’è il sapere e potere dell’uno e dall’altra la dipendenza passiva dell’altro, dove un possibile riequilibrio e diminuzione della distanza sta nella condivisione dei passaggi del percorso di cura, e il riconoscimento della responsabilità del medico nei confronti della persona malata anche laddove la cura nel senso di guarigione non potrà esserci. 

Siamo formati a tutto questo? Molto poco all’inizio e nel corso del tempo è necessario un lavoro continuo di ascolto, di adattamento, di identificazione e di distanziamento, in una parola di continua modulazione attorno alla persona che si rivolge al medico portando il suo corpo malato. E’ importante riuscire ad acquisire questa capacità di modulare poiché spesso vi è una differenza tra quello che vediamo o non vediamo e quello che il malato ci riferisce o tra quello che comunica metaverbalmente e ciò che appare. Un semplice esempio: la consegna degli esiti degli esami in busta chiusa o aperta. Un segno di affidamento quasi totale, una delega anche nel conoscere lo stato della malattia. O al contrario la produzione di pagine e pagine tratte da Internet in un desiderio di controllo e conoscenza.

Come premesso è utile analizzare le difficoltà che potranno essere spunto poi di discussione. E una di queste è la comunicazione anche lungo il percorso di cura dopo la diagnosi. A supporto della comunicazione il medico ha un linguaggio tecnico, protocolli noti e validati, farmaci innovativi che vengono lanciati sul mercato, ha numeri e risultati, letteratura e studi clinici, ma non sempre ha tempo per tenere conto anche di un campo psicologico a cui non è formato a meno che, come accennato prima, non abbia voluto intraprendere su di sé un lavoro analitico che gli permetta di osservare il corpo malato e la persona che lo porta da angolazioni diverse. Teniamo presente che questo corpo viene toccato dal medico, analizzato, guardato, auscultato, instaurando un rapporto molto intimo e di dipendenza.

In un contesto culturale e sociale che richiede progressivamente sempre più guarigioni e ripristino di uno ‘status quo ante’ si può intuire come possa essere difficile il percorso di cura e come variabile possa essere il comportamento del medico. Es. posizione difensiva, posizione tecnologica (dietro al computer), posizione paternalistica o prescrittiva. La richiesta della società e di conseguenza l’ottica formativa è ancora e sempre orientata al curare per guarire, nonostante fiumi di relazioni, delibere, regole di sistema parlino di come sia necessario e prioritario portare avanti il concetto di ‘prendersi cura’, il ‘to care’ rispetto al ‘to cure’. In una società che invecchia sempre di più, in cui le malattie croniche aumentano, in cui emerge una popolazione anziana malata in prevalenza costituita da donne, sole e spesso non abbienti, dove grazie alle diagnosi precoci e le terapie efficaci  è salita percentualmente la prevalenza di persone malate curabili, ma non guaribili, che vivono con il proprio corpo malato molto a lungo (pensiamo ai tumori es) appare evidente come la formazione del medico attuale si muove tra un mondo sempre più tecnologico e un reale sociale e culturale molto cambiato rispetto a venti, trent’anni fa, più complesso, meno standardizzabile in cui le capacità tecnico-scientifiche vanno affiancate da un recupero di sensibilità e conoscenze umanistiche.

I dati e i numeri devono essere registrati, verificati, temporizzati (sono stati definiti i tempi per le visite, le terapie, i numeri da raggiungere), e per fare questo consistente è il tempo cosiddetto burocratico o tecnologico, a volte vissuto dal medico come uno snaturamento della propria professione, in realtà solo un tempo sottratto alla concentrazione sul malato da vedere nel suo insieme di corpo e persona esprimente emozioni contrastanti di fronte alla irruzione della malattia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *