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Anche Freud vittima dell’epidemia

Esattamente 100 anni fa l’influenza spagnola, come oggi il coronavirus, in due anni di epidemia (1918-1920) miete milioni di vittime in tutto il mondo, in prevalenza giovani, trovando un terreno favorevole nelle condizioni sanitarie conseguenti alla Prima guerra mondiale: campi medici, ospedali sovraffollati, scarsa igiene. E così le persone uccise dalmorbo sono più numerose degli stessi soldati caduti nelle battaglie del sanguinoso conflitto. Anche la famiglia del fondatore della psicoanalisi, Sigmund Freud, viene colpitanell’inverno del 1919, da questa grave polmonite: dapprima le figlie Anna e Mathilde, il figliErnst ed poi la stessa moglie Martha. Questa è così debilitata da dover essere ricoverata nelsanatorio di Parsch, vicino a Salisburgo. Le preoccupazioni per la salute si sommano alle notizie circa la situazione economica delmomento: «Tutto a Vienna è costoso, insostenibile. Chi lo sa quanti di noi sopravviveranno!» Così nel luglio di quello stesso anno scrive all’allievo K. Abraham, preoccupato per lecondizioni di salute della moglie e per le ristrettezze nella vita quotidiana dei viennesi. Nello stesso periodo, il figlio Martin, impegnato come soldato sul fronte del Piave, da lunghi mesi non dà notizie di sé; poi finalmente la Croce rossa internazionale comunicherà che si trova in stato di prigionia nei pressi di Genova. Ma è all’inizio del 1920 che un grave lutto coglie la famiglia: Sophie, la figlia trentasettenne, cade vittima della terribile epidemia per influenza spagnola. A Freud, che sta invecchiando, tocca la sorte crudele di dover sopravvivere alla giovane figlia. Alla morte si aggiunge l’impossibilità di partecipare ai funerali, ad Amburgo, a causa dell’assenza di treni che dall’Austria giungano in Germania. Il 25 gennaio 1920 scrive al genero Max Halberstadt: «Quello che ci ha portato via la nostra Sophie è un atto insensato, brutale del destino, qualcosa contro cui non si può fare né rimuginare alcunché, si può solo piegare il capo sotto il colpo, da uomo indifeso, povero, con il quale giocano forze superiori». Sono righe che trasudano grande dolore, trattenuta ribellione e forzata rassegnazione. D’altronde, Sophie è la figlia preferita dalla madre e molto ammirata dal padre; in famiglia veniva chiamata “la bambina della domenica” per il suo carattere solare. Dal matrimonio, erano nati due bambini: Ernst Wolfgang ed Heinz Rudolf, “Heinele”, gracile “figlio della guerra” alla cui giovanissima morte (1923) per tubercolosi miliare, Freud ammetterà: «Non ho più il piacere di vivere». Questa disaffezione per la vita, che taluni scambiano per coraggio, è invece «il segreto della mia indifferenza verso le sfortune della vita». Il piccolo Ernst Wolfgang è entrato a sua insaputa nella storia della psicoanalisi: Freud assiste il nipotino, di 18 mesi, mentre gioca con un rocchetto di filo, che lancia lontano da sé e poi lo fa ricomparire, emettendo un “eccolo” di soddisfazione. Osservando questa scenetta domestica apparentemente ingenua, il nonno psicoanalista comprende che il piccolo mima l’assenza della madre, simbolizzandola nella sparizione e riapparizione del rocchetto. Formula quindi la teoria della coazione a ripetere: esiste una tendenza inconscia a riproporre, tramite gesti e azioni quotidiane, degli schemi o dei modelli interni, che in passato hanno generato una ferita. Infatti, alcune sofferenze vengono rimosse, ma non spariscono del tutto e possono indurre la persona a mettere in atto dei comportamenti volti a rivivere il ricordo rimosso come fosse un evento attuale. Ma, quale rapporto ha Freud con l’esperienza del lutto? In un saggio del 1915 dal titolo significativo Considerazioni attuali sulla guerra e la morte annota: «Non sarebbe preferibile restituire alla morte, nella realtà e nel nostro pensiero, il posto che le compete, dando un rilievo un po’ maggiore a quel nostro atteggiamento inconscio di fronte alla morte che ci siamo fino a ora sforzati di reprimere con cura?» E conclude che sopportare la vita è il primo dovere di ogni uomo, quasi un dovere naturale in senso aristotelico. Insomma, se la lotta tra Eros e Thanatos fa parte della sua concezione della vita, alla morte egli sente il dovere di sopravvivere, resistere e al carattere paralizzante del dolore di reagire. Confessa all’amico pastore protestante O. Pfister: «Lavoro quanto posso. La perdita di una figlia sembra essere una grave ferita narcisistica». La morte di un giovane interrompe l’ordine delle generazioni. Il trauma della perdita esterna intacca la fiducia e la convinzione interna che il genitore ha della vita del proprio figlio. Com’è possibile per Freud elaborare il lutto della figlia Sophie quando chi muore è una giovane donna, identificata quindi con la vita? Coerente con quanto scritto in precedenza, egli si tiene abbarbicato alla realtà, al quotidiano, nella ricerca di una cura alla ferita tragica. L’assurdità della vita trova in Freud l’ostinazione, la lotta per la vita come in Sisifo.  Quanto all’indifferenza, confessata da Freud, sembra preconizzare un dolore dell’ “oltre-uomo” nietzschiano, dove la fuga dal dolore si risolve nell’accettazione della propria condizione umana, dei limiti al proprio narcisismo che, sebbene dolorosi, ci riconciliano con la nostra piccola vita nella quale soltanto sta la vera grandezza e la piena libertà. L’elaborazione del lutto comporta il tempo mentre, intanto, il lavoro quotidiano e il distacco dalla perdita gli consentono di sopportare il dolore e coltivare la vita. Forse, nella elaborazione del lutto lo soccorre il nipotino Ernst, con il gioco del rocchetto: riprendere il lavoro con i pazienti assume per lui il significato di padroneggiare la perdita come pure di sostenere l’illusione per cui all’uscire ed entrare di uno dei suoi pazienti possa inaspettatamente ricomparire la sua amata figlia della domenica, Sophie.

Marchioro Francesco

Per i quotidiani

Alto Adige e Trentino

Bolzano, 15 maggio 2020

 

 

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