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Quando nell’Africa occidentale scoppiò, nel 2014 un’epidemia di Ebola, gli Stati Uniti e la Cina, le maggiori potenze economiche mondiali, risposero in modi profondamente differenti. L’ Amministrazione Obama spedì la 101° Divisione aerospaziale e altre truppe per costruire ospedali e donò più della metà dei 3,9 bilioni di fondi per la ricostruzione raccolti dai governi di tutto il mondo. Entro sei mesi l’improvvisa esplosione fu sotto controllo e lo sforzo guidato dagli Stati Uniti fu salutato come un modello per affrontare future epidemie.
I Cinesi con le loro imprese minerarie e di costruzioni avevano grossi affari in Liberia, Guinea e Sierra Leone, ma Pechino mirò a dare una risposta di tipo umanitario.   Tra agosto e dicembre di quello stesso anno circa 10 mila cinesi presi dal panico fuggirono da quei paesi. La Cina, impreparata per tali compiti, mandò squadra di medici e rifornimenti sanitari, ma dopo tutto contribuì con poco meno del 4% dei fondi per la ricostruzione.
Sei anni dopo nessun delle due nazioni può vantare di avere assunto la guida nell’affrontare la pandemia di Covid-19, che finora ha ucciso più di 250.000 (n.d.r. dato riportato *) in tutto il mondo. Gli sforzi di entrambi sono stati vanificati dai dinieghi, dal nascondere i fatti, dall’auto-inganno. La guerra commerciale del presidente Trump e l’ostilità del presidente Xi Jinping verso ogni influenza occidentale avevano già portato le relazioni fra i due paesi al livello più basso da decenni.                   Ora, nel tentativo di indebolire le critiche, entrambi stano muovendo l’uno contro l’altro in modo pericoloso. 
Per il presidente Xi arginare la malattia, che era comparsa nella provincia dell’HUBEI mesi fa, è stata una corsa contro una calamità tanto sanitaria quanto politica.   Dopo aver imposto il silenzio ai dottori che segnalavano il virus, Pechino riguadagnò il controllo della situazione chiudendo Hubei, facendo test a milioni di soggetti, ponendo in quarantena i casi sospetti, e per alcuni casi sospetti  allontanando con la forza i residente dalle loro case. A metà marzo la Cina non aveva da denunciare quasi nessun nuovo caso; una dichiarazione che gli esperti stranieri consideravano dubbia, per quanto vicina alla verità. 
Tratteggiare il racconto del ruolo della Cina nella pandemia non sarà facile. In aprile l’Associated Press si procurò dei documenti che provavano come i leaders a Pechino sapevano della portata potenziale della minaccia già dal 14 gennaio ma Xi attese sei giorni prima di darne pubblica notizia. Fu un catastrofico interludio di cene, viaggi in treno, strette di mano che contribuirono a scatenare l’epidemia. Il governo diede via libera a una offensiva di pubbliche relazioni, proteggendo le esportazioni cinesi di attrezzature verso altre nazioni, una tattica bollata come “diplomazia delle mascherine”. Sostenne anche, senza nessuna prova, che la fonte del virus fosse stata una delegazione statunitense che aveva partecipato ai Giochi militari mondiali a Wuhan in ottobre. La ritorsione degli acquirenti fu la  lamentazione sulle modalità di spedizione, ed esponenti statunitensi si lamentarono che la Cina usava i social media per diffondere informazioni false e tali da generare contrapposizioni. 
L’Amministrazione Trump, per parte sua, aveva tagliato i fondi destinati all’Organizzazione Mondiale della Sanità e aveva rifiutato di entrare nel fondo per le ricerche sul vaccino, guidato dall’Europa. Le delusioni di Trump – che il virus potesse scomparire grazie a un “miracolo”, che una medicina antimalarica potesse prevenire la scienza, che ingerire disinfettanti potesse aiutare – avevano ridotto la reputazione dell’Amministrazione al livello di una farsa pericolosa. La settimana corsa, Kevin Rudd, già primo ministro australiano, scrisse sulla rivista Foreign Affairs che l’Amministrazione americana aveva “lasciato in tutto il mondo una impressione di essere incapace di gestire le sue proprie crisi, lasciando solo chiunque altro”. Secondo Rudd, la sconsolante verità è che “tanto gli Stati Uniti quanto la Cina usciranno entrambi significativamente ridimensionati”.
L’Amministrazione americana ha criticato legittimamente le prime fasi delle notizie cinesi sul virus e il loro sforzo di tenere sotto controllo la ricerca delle origini del virus. Ma la Casa Bianca rafforzò la strategia diretta  a indebolire il potere globale della Cina e accrescere le possibilità di rielezione del Trump. (Un addetto del comitato per la rielezione di Trump dice: “per fermare la Cina, dovete fermare Joe Biden”). Alcuni addetti dell’Amministrazione hanno suggerito, in forma anonima, ai reporter delle fantasie vendicative, come quella di lasciar cadere i debiti americani verso la Cina, un atto che – come hanno osservato gli investitori – avrebbe minato la credibilità finanziaria americana. Come disse al Washington Post Adam Pose, presidente dell’Istituto Peterson per l’economia internazionale : “In linguaggio economico, questo è peggio che dire alla gente di bere candeggina”.
Su una linea di attacco molto rischiosa, alcuni membri dell’Amministrazione, giuristi conservatori, tra  quali il senatore Toma Cotton e la Fox News hanno partorito  una teoria non verificata per cui il corona virus sarebbe stato prodotto da una fuga accidentale da un laboratorio cinese di virologia.
Il 30 aprile Trump ha detto di aver visto prove convincenti di questo fatto ma non ha dato alcun dettaglio. Tre giorni dopo il segretario di Stato Mike Pompeo lo seguì limitandosi a dire che c’era una prova straordinaria per sostenere tale teoria. Voci più credibili – inclusa quella di Anthony Fauci, il maggior esperto governativo di malattie infettive, e il generale Mark Milley, capo di Stato Maggiore – si sono rifiutate di avallare questa versione.
Tuttavia i discorsi di Trump e di Pompeo hanno suggerito alla comunità dei servizi segreti che l’Amministrazione voglia tentare si seguire la strada imboccata  nel 2002 dal vicepresidente Dick  Cheney e dal capo del suo staff, Scooter Libby,  che fecero pressioni sui servizi segreti perché trovassero materiale tale da appoggiare le teoria per cui Saddam Hussein aveva armi di distruzione di massa. Chris Johnson, già analista sulla Cina alla CIA – che ora guida il Gruppo Strategico Cina – ha detto:           “Se avessimo una pistola fumante, l’Amministrazione l’avrebbe mostrata. Ci sono i fantasmi di Libby e Cheney e questo mi preoccupa”.

 

*By Evan Osnos, in “The New Yorker”, 18 maggio 2020

 

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