Ancora NEL NOME DEL PADRE, alla soglia degli 80 anni, Marco Bellocchio firma quella che potrebbe essere l’opera di un ventenne col rigore di un Maestro del Cinema. Dal 2009 con VINCERE il suo cinema è diventato improvvisamente dinamico, con un nuovo sguardo più lucido, più chiaro più incalzante, a cui non è estraneo l’impulso del contributo al montaggio di Francesca Calvelli.
E come in VINCERE torna un personaggio parallelo alla Storia, come rivelatore delle crepe insite nella banale divisione fra bene e male.
Là era Ida Dalser l’amante rinnegata da Mussolini interpretata da una monumentale Giovanna Mezzogiorno, qui è Tommaso Buscetta l’accusatore delle storture di Cosa Nostra rispetto ad un codice di dubbia “morale” per il quale mai si definì pentito, reso altrettanto magistralmente da un Pier Francesco Favino ingiustamente escluso dai Palmares di Cannes. Così assurdi da sfociare nella demenzialità (come dimenticare Almodovar col suo capolavoro, preferire Banderas bravo a Favino gigantesco e via con altri presunti deliri da meglio verificare).
Il film è visivamente potentissimo e per questo lontanissimo dalla serialità gomorresca che ha ridotto la Storia a fiction televisiva. Dal prologo sontuoso della festa lugubre delle famiglie palermitane -dove confluiscono THE FUNERAL di Abel Ferrara e IL GATTOPARDO di Visconti in una foto di gruppo travolgente e funerea -dove padri e padrini vampirizzano i figli privandoli dell’anima, si passa via via alla danza di morte di una classe morta dentro, dove il Cinema ritrova il grande Teatro. Steindberg, Ibsen, la Tragedia Greca fino alla grande Emma Dante. Il sogno di morte che Buscetta fa della sua morte e del suo funerale è di una forza immaginifica significante -come ai tempi de I PUGNI IN TASCA- che percorre tutto lo spazio del grandissimo schermo. Bellocchio lo tiene in pugno con l’astrazione dei grandi visionari, col sarcasmo di un Bunuel e con una poesia non retorica messa al servizio dello scavo psicologico. Come nel bellissimo FAI BEI SOGNI la dimensione è sempre altra. Là era il purgatorio della memoria, qui è l’inferno della sua mancanza. Un universo umano che vacilla sul baratro di un nulla personale, sostituito da codici, regole, giustificazioni a quel nulla. Ma anche a livello istituzionale si picchia duro. Si filma un processo e si vede un rituale meccanico talora grottesco, che non può nulla sulla devastazione psicologica degli imputati.
Vent’anni di Storia diventano inconscio collettivo prima ancora che ricostruzione dei fatti, in un controllatissimo labirintico viaggio nel male di assoluta misura e chiarezza. Non la banalità bensì l’animalità del male, le iene in doppio petto (nella sartoria si incrociano Buscetta e Andreotti che provano le giacche restando in mutande) mentre una belva in gabbia ritorna a più riprese. Cinema maiuscolo senza un’interpretazione univoca, di ferocia e attenzione massima ai personaggi, con squarci di grande umanità e introspezione nelle conversazioni-deposizioni fra Buscetta e Falcone (molto bravo Fausto Russo Alesi) sempre nel segno dell’ambiguità, del controluce, della penombra che contraddistingue sia la condizione umana che quella disumana. L’una specchio dell’altra e questo Bellocchio, da Maestro del Cinema, lo sa e lo mostra molto bene. Un film complesso e oscuro di impareggiabile chiarezza.