Vestirsi è un gesto – spontaneo ma anche calcolato – che cozza con la domesticità forzata. Benvengano le frivolezze consolatrici
E all’improvviso, non c’è più un palcoscenico – anche piccolo piccolo, da teatrino off, da scantinato. Non abbiamo più un pubblico cui mostrarci, se non nella fissità da primo piano di quelle cam che adesso sono costantemente accese e penetrano l’intimità di case più o meno socialmente spendibili. Nella furia dello streaming, c’è chi edita l’angolo giusto e chi finalmente se ne frega. Il virus di certo ha abbattuto molte remore. Privandoci della possibilità di interagire in uno spazio fisico reale, negando volume al nostro corpo e ai nostri gesti, imponendo una distanza sociale che significa in ultima analisi impossibilità di uno scambio effettivo che sia anche solo uno sguardo di sguincio, da dietro, ad una silhouette sconosciuta che si allontana, ci ha reso tutti solisti, connessi alla bell’e meglio, sorta di web celebrities ansiose di una audience, ma anche un po’ cosí, comu veni si cunta (come viene viene: perla immarcescibile di stoicismo siculo). Che poi diciamolo: il teatrino internettiano è un mezzo di puro servizio. Svolge una funzione, freddamente. Connette, ma non consente una vera narrazione, di nessun genere, perché la camera si muove poco, e perché lo scopo in fondo è tutt’altro. Non espande le possibilità, di certo non con i vestiti. La domesticità forzata cui aderiamo per inderogabili e sacrosanti motivi di salute pubblica con la moda ci cozza proprio. Ha riportato un po’ tutti al grado zero, che è coprirsi. Ma vestirsi, inteso come gesto insieme spontaneo e calcolato di rappresentazione di sé, è ben altra cosa: abbisogna di un pubblico o perde di efficacia. Siamo animali sociali: la nostra identità si definisce nel rapporto con gli altri, e trova nel vestimento il più rapido ed efficace mezzo di comunicazione.
In ghingheri mezzobusto
Che sia una uniforme – reale o simbolica – che rende chiaro d’acchito il ruolo, o una sequela di segnali e codici precisi come una lingua, che evidenziano status sociale, affiliazioni culturali o mero potere di spesa, il vestito dice molto, spesso più del necessario, ma implora uno sguardo. Se ne nutre, lo ricambia, e star chiusi tra le mura di casa ne è la nemesi e l’antitesi. La storia pullula di damerini e damine che rutilavano e fiammeggiavano chez soi, ma di magioni frequentate si trattava. Adesso invece le nostre sono case vuote, rigorosamente limitate al nucleo familiare che può anche essere la cellula minima del single. Non c’è nessuno cui rivolgersi, e per l’aperitivo in videochat – da esibire rigorosamente con lo screenshot su Instagram, perché mal comune mezzo gaudio – basterebbe in effetti mettersi in ghingheri fino alla cintola, e dimenticare il resto, che nessuno tanto potrà mai vedere.
Frivolezze consolatrici
La temperie fosca ci richiama con non poco moralismo all’essenziale: un quadro di mera sopravvivenza nel quale la moda è relegata a ultima delle preoccupazioni, frivolezza delle frivolezze. Eppure, sono proprio il superfluo e le frivolezze a salvare dall’abbrutimento; aiutano, consolano, confortano. Vengono in mente Edith Bouvier Beale e la madre, Edith Ewing Bouvier Beale, cugine di Jackie Kennedy, recluse volontarie in una villa fatiscente negli Hamptons, tra gatti e monnezza, splendide nei loro collant al posto dei pantaloni, maglioni legati a mo’ di turbante e pellicce fruste. Dieci anni di clausura in look sensazionali a scena vuota, immortalati in Grey Gardens, il documentario di Albert e David Maysles amatissimo dai modaioli. Certo, le due avevano qualche rotella fuori posto, ma dai matti c’è sempre qualcosa da imparare, in particolare oggi che siamo tutti a rischio cabin fever causa claustrofobia. Altro che tute da ginnastica. Altro che realismo e becero moralismo.
Fonte: Il Sole 24 Ore, 23 marzo 2020