Negli ultimi mesi abbiamo sperimentato uno stato acuto di paura mai vissuto prima, con il Covid-19 che minacciava, e ancora minaccia, il pianeta. Ma convivendo con il virus abbiamo scoperto anche nuovi stratagemmi che ci hanno spinto ad adottare nuovi modi di fare acquisti, di lavorare, imparare, socializzare, fare la coda, pregare, giocare e anche di muoverci e interagire.
Persiste però un timore che minaccia di sopravvivere al virus stesso. Quanto ci metteremo a guarire dal distanziamento sociale – questa necessità salvavita che ha scosso in egual misura la nostra psiche e il nostro corpo. A dispetto di una lunga tradizione di privilegio della mente sul corpo, è evidente che quanto impariamo attraverso e con il corpo dura nel tempo. Pensate, ad esempio all’impatto sociale e psicologico di lunga durata della separazione degli spazi su base razziale. O anche al modo in cui gli spazi pubblici riescono a polarizzare i corpi come “loro” contro “noi” per creare un terreno di scontro politico.
Il modo in cui i nostri corpi occupano lo spazio influisce direttamente sul nostro comportamento e sul nostro pensiero. Come reagiremo, allora, alla spinta di recupero dei nostri spazi (ristretti): trasporto pubblico, uffici open space, fabbriche, cantieri, aeroporti, aule, sale da concerto e centri commerciali? Con il lento evaporare dei nostri due metri di sicurezza, come supereremo questa nuova incarnazione della paura: il fatto che ognuno di noi, noi compresi, potrebbe essere una minaccia?
Affrontare il Covid-19
Non dobbiamo trascurare il modo in cui diamo un senso – fisicamente ed emotivamente – a un mondo colpito da un virus globale. La mia ricerca ha esaminato il modo in cui l’uso personificato dello spazio da parte nostra – la nostra prossimità, la nostra distanza e i confini che creiamo tra noi – ci influenza socialmente, economicamente e anche politicamente. Al momento stiamo osservando il modo in cui i nostri corpi imparano a reagire in un nuovo mondo plasmato dalla pandemia.
Pensate a come i nostri spazi commerciali sono stati trasformati per accogliere in sicurezza noi, che siamo ormai potenzialmente contagiosi. I negozianti hanno reinventato su due piedi il modo in cui facciamo acquisti: quanto, ogni quanto tempo e con chi. Attraverso segnali visibili e politiche di cortesia, ci hanno reso consapevoli dei nostri corpi, del modo in cui ora occupiamo lo spazio rispetto a come lo facevamo prima– senza pensarci.
Sulla scia della nuova segnaletica e messaggistica da pandemia, osserviamo come i nostri spazi commerciali, i parchi pubblici e le aule scarsamente popolate sono diventati spazi attentamente curati per arginare la nostra interazione sociale, allontanandoci reciprocamente.
Ma i nostri corpi, come attraverseranno gli spazi collettivi una volta cadute queste barriere protettive? I pendolari resteranno tranquillamente seduti uno accanto all’altro sugli autobus, sui treni e sugli aeroplani, senza che un senso di paura pervada il loro corpo al pensiero di un vicino contagioso?
Quello nuovo sarà un mondo di volti nascosti, di sensi attutiti da guanti di plastica, in cui i potenziali contatti saranno schermati da vetri protettivi? Come reagiranno i nostri corpi? E in che modo questo nostro nuovo mondo, fragile e più sanificato, reagirà a tutti questi corpi?
Nonostante ci siano prove di come la pandemia colpisca più alcune persone piuttosto che altre – gli anziani e gli infermi, gli uomini più delle donne , minoranze etniche chi si trova ai margini della società – Covid-19 ha generato un’incertezza che lo rende particolarmente spaventoso. I portatori restano preoccupantemente anonimi in quanto ad apparenza e comportamento, e nuove prove indicano che molti potrebbero non avere sintomi.
L’origine della nostra angoscia non ha genere, etnia, programma politico o scopo. Non ha una storia o una faccia e dona così alla pandemia una qualità universale che la rende difficile da metabolizzare.
La nostra paura dei corpi altrui non è una novità, e l’umanità ha una lunga e deplorevole storia di individuazione di alcune figure come più temibili rispetto ad altre, che si tratti dei musulmani dopo l’11 settembre, dei richiedenti asilo, durante la campagna referendaria per la Brexit, o della costante e sistematica demonizzazione delle persone di colore.
Ma la natura universale del Covid-19 rende virtualmente indistinguibili i corpi gli uni dagli altri, rendendoci tutti vulnerabili e pericolosi al tempo stesso. Piuttosto che essere articolata, la nostra paura del Covid-19 è intrinsecamente viscerale, saldamente inculcata nella nostra memoria muscolare, rendendo ancora più difficile scrollarci di dosso la nuova paura reciproca recentemente acquisita.
Negoziare una nuova normalità
C’è però un aspetto positivo. Covid-19 può essere visto come un grande livellatore che ci incoraggia ad ammettere la nostra vulnerabilità e quella altrui, spingendoci ad affrontare il virus come un fronte unito e omogeneo. Ed è questo nuovo modo di vivere post-Covid-19 che può renderci più responsabili e più consapevoli dell’impatto che i nostri corpi hanno sull’ambiente, sull’economia e sui nostri rapporti, sociali, fisici ed emotivi.
In questo nuovo rinascimento, imparare attraverso e con i nostri corpi ci incoraggia a una diversa visione del mondo. Pensate, ad esempio, a come l’inconveniente fisico di essere privati di sacchetti di plastica “gratis” ci ha insegnato a essere consumatori più coscienziosi e ha cambiato nel lungo periodo i nostri consumi di (almeno un po’) plastica monouso.
Iniziando a liberarci dei nostri bozzoli di confinamento, la nozione di ritorno alla “normalità” è tanto un’impossibilità, quanto un’opportunità mancata. Affermarlo porta un falso senso di ottimismo e ci nega al tempo stesso la possibilità di fare meglio le cose.
Sopravvivere a una pandemia globale, fisicamente ed emotivamente, è una cicatrice che dovremmo portare con orgoglio, rivelando la ferita che ci ha sia guariti sia plasmati. Fino ad allora, i nostri corpi devono continuare a danzare la nostra goffa nuova danza.
* Victoria Rodnen tradotto da The Conversation