Ormai è virale sul web la maschera da snorkeling trasformata in un respiratore grazie a un’intuizione di un’azienda bresciana. Le maschere da snorkeling di Decathlon sono state adattate come caschi respiratori ovvero dispositivi di respirazione CPAP che si attaccano all’impianto dell’ossigeno dell’ospedale e sono impiegati nei casi meno gravi che non richiedono intubazione.
Decine di makers e piccole aziende in tutta Italia si stanno coordinando in queste ore per stamparne centinaia di copie in accordo con gli ospedali locali. La valvola Charlotte, realizzata con una stampante 3D, è forse il simbolo della forza dell’inventiva dei cosiddetti “maker”, creatori e artigiani digitali, che si sono messi anima e corpo al servizio dell’emergenza Covid-19. È la prima volta nella storia che una rete così ampia di persone, nata spontaneamente sul web, si mette al lavoro per reagire ad un’emergenza globale usando la tecnologia.
Sono oltre 50mila i makers iscritti al gruppo Facebook “Open Source COVID19 Medical Supplies” che stanno collaborando in queste settimane per progettare e realizzare dispositivi medici. “La nostra missione”, spiega l’ideatore dell’iniziativa Gui Cavalcanti, “è quella di fornire informazione trasparente, accurata, approvata da medici, a supporto delle community che in tutto il mondo stanno sviluppando progetti”.
Vediamo alcuni esempi di cosa e come stanno producendo i maker. L’azienda Isinnova, creatrice della maschera da snorkeling trasformata, ha ricevuto centinaia di ordinazioni, ma grazie alla condivisione del progetto in open source, la valvola può essere sviluppata da chiunque abbia una stampante 3D ad ogni latitudine del pianeta. L’azienda bresciana è solo una delle tante che condividono prototipi gratuitamente per fare la propria parte contro il virus.
Il sito “Coronavirus tech handbook” si possono trovare altre numerose iniziative come quella dell’azienda italiana Wasp. Nel giro di pochi giorni il team romagnolo ha creato il prototipo di una mascherina su misura con filtro intercambiabile. Grazie a una scansione 3D questo supporto per filtri si può adattare al viso e quindi può essere più aderente e sicuro. In realizzazione c’è una visiera speciale per proteggere gli occhi, uno dei punti deboli contro il virus, e anche un casco ventilato da usare in ambienti contaminati come gli ospedali. Queste ditte operano a titolo totalmente gratuito. Anche il produttore italo americano di stampanti 3D Roboze ha messo a disposizione risorse e know how stampando centinaia di valvole per i respiratori artificiali destinati ai malati Covid-19 in tutta Italia.
In Sardegna è nato il gruppo di lavoro “Makers Pro Sa Sardigna”, team che coinvolge tanti maker dell’Isola. Un vero e proprio laboratorio multitasking e iper tecnologico. La prima missione nell’agenda del gruppo è il progetto “Sos Makers pro sa Sanidade e Sa Sardigna”: un nome che richiama all’esigenza, impellente e impegnativa, attraverso tecnologie come stampa 3D e taglio laser, di produrre prototipi per la protezione dal virus. Il primo atteso risultato sarà rappresentato dalla consegna di 340 prototipi di schermi facciali prodotti dai FabLab pubblici e privati per la valutazione negli ospedali dell’intera Sardegna. Altri 500 schermi sono già in stampa. La prototipazione rapida è stata possibile grazie a Sardegna Ricerche, che ha acquistato e messo a disposizione il materiale dei suoi laboratori per il raggiungimento dell’obiettivo. Altre esperienze e creazioni provengono da più parti Italia.
I governi in Europa e negli Stati Uniti stanno tentando un approvvigionamento disperato ma potrebbe non bastare, mentre i paesi meno sviluppati resteranno esclusi da questa corsa. È questa la sfida dei makers: centinaia di migliaia di stampanti 3D in tutto il mondo possono diventare una grande fabbrica distribuita se progettiamo dispositivi facili da costruire e soprattutto open source. Le industrie che stanno riconvertendo le proprie linee di produzione hanno bisogno di tempo: qualsiasi soluzione, nell’attesa, è meglio di niente.
Ma chi sono i makers? “Il maker è una persona che prova piacere nel costruire oggetti con le proprie mani, con la propria inventiva, la propria tecnica e le proprie abilità. Il maker fa quello che gli artigiani fanno da secoli, con l’amore per il proprio lavoro e per la propria arte, con il supporto delle nuove tecnologie: è un artigiano digitale, che utilizza nuovi strumenti per reinventare una professione che sta scomparendo” Sono persone che, con un forte approccio innovativo, creano prodotti per avvicinare la nostra società a un futuro più semplice e divertente. Il loro motto è “fai da te” ma soprattutto “facciamo insieme”. Sono, infatti, una comunità internazionale presente in oltre 100 paesi e condividono informazioni e conoscenze sia attraverso il web sia attraverso veri e propri luoghi fisici, i cosiddetti Fab Lab. Usano macchinari come frese o stampanti 3D ma anche software e hardware open source che si possono scaricare gratuitamente dal web per dare vita a qualcosa di originale.
I makers, oggi, vengono identificati come un vero e proprio movimento culturale dalle enormi potenzialità sul piano dello sviluppo sociale e economico, grazie alla loro capacità di esplorare nuove strade o semplicemente di percorrere in modo “moderno” quelle esistenti . All’inizio del 2000 un professore del MIT intuì per primo che il digitale non era solo utile a fare siti web: era lo strumento per fabbricare le cose. Quali cose? Quasi qualunque cosa. Il suo nome è Neil Gershenfeld, allora aveva 40 anni, e questa frase la scrisse come slogan del garage che il MIT di Boston gli concesse per ospitare le sue strane macchine per la fabbricazione digitale. Il Centro per i Bit e per gli Atomi, “il posto dove fabbricare quasi qualsiasi cosa”.
I makers sono diventati un movimento globale, organizzati nei laboratori chiamati fablab, e poi anche una moda; ovviamente a quel punto la politica li ha blanditi, persino Obama ha ricevuto una loro delegazione alla Casa Bianca un giorno, e a un certo punto qualcuno ha anche immaginato che un giorno tutti noi avremmo avuto in casa una stampante 3D, come se fosse un personal computer, con la quale fabbricarci qualunque cosa volessimo. Non è successo, almeno non ancora. E dopo un po’ le fiere dei maker sono entrate in crisi, e così le riviste e la politica si sono scordate di loro.
Ma quando il coronavirus è apparso nel nostro mondo e abbiamo scoperto che ci mancavano ventilatori, valvole e mascherine, in quel preciso momento la rete dei maker è entrata in campo. E’ successo prima in Italia, dal nord al sud, e molti sono gli esempi che sono comparsi sul web. Ora non c’è città del mondo colpita dal Covid19, dove un maker in questo momento non sia al lavoro. Le fabbriche sono chiuse, i fablab no. Lavorano insieme, senza bisogno di vedersi, ma scambiandosi i file dei progetti via Internet secondo quella filosofia open source per cui le istruzioni sono a disposizione di tutti e tutti le possono migliorare. Una cosa fatta bene a Brescia, la copiano a Madrid, la migliorano a New York e poi la replicano di nuovo in Italia e così via. Uno dei problemi però, come ad esempio in Spagna, è che le Istituzioni non vogliono prendersi la responsabilità di approvare questi dispositivi, ma il personale sanitario li chiede disperatamente, anche perché è noto come sia stato e ancora oggi sia in molti posti così deficitario e non regolare l’approvvigionamento delle mascherine (dove è dunque il corretto uso secondo certificazione?).
La realtà è in effetti lontana dal rispetto delle certificazioni: in Spagna come negli USA i sanitari si stanno costruendo dispositivi di protezione usando i sacchi della spazzatura e il nastro adesivo, mentre il governo iberico ha abilitato l’importazione di materiale non marchiato CE. Il governo dovrebbe riconoscere espressamente quello che si sta facendo con la fabbricazione digitale e includerlo nella strategia di breve termine anche per governarlo al meglio. Nessun gruppo considera per adesso l’omologazione dei propri macchinari ma si punta invece ad una più semplice approvazione come soluzione di emergenza per l’uso in mancanza di altri dispositivi, e a questo scopo non esistono protocolli ufficiali. La community ha organizzato una task force per definire dei test, anche costruendo simulatori polmonari, in modo da presentarsi al ministero della salute spagnolo con le evidenze cliniche. Nel frattempo, oltre mille aziende della penisola iberica hanno offerto il loro supporto, e anche in Italia la community si sta organizzando con una chiamata alle armi di tutti coloro che vogliono collaborare.
Proprio quando ci aspettavamo che il mondo dovesse essere salvato dai robot e dall’intelligenza artificiale, ci è venuta in soccorso una rete di uomini e donne armati di tecnologie normali tutto sommato (le stampanti 3D ma non solo), adatte a produrre al volo quello che serve a salvare vite umane. Come è stato possibile? Uno dei loro leader, Dale Dougherty, fondatore delle Maker Faire, sulla rivista ufficiale ha scritto che “nella vita quando c’è un problema prima c’è il piano A, ovvero l’intervento del governo; se non basta, si attiva il piano B, tocca alle grandi aziende fare la loro parte; ma se ancora non basta, resta solo il piano C. La mobilitazione di tutti quelli che possono fare qualcosa. Noi siamo il piano