Lo smart working ci ha messo di fronte a un nuovo tipo di stress, che ha che fare con gli effetti psicologici dello stare in casa e il futuro del lavoro.
Gli spazi sociali si sono ridotti alle dimensioni di uno schermo piatto. Con il distanziamento sociale imposto dal Coronavirus anche il lavoro si è trasferito in videoconferenza. La metà della forza lavoro americana lavora da casa. In Germania il Ministro del lavoro ha proposto una legge per permettere agli impiegati di restare a casa a tempo pieno o qualche giorno a settimana. La piattaforma per le videoconferenze Zoom, la più utilizzata, è decollata in borsa. Insegnanti, studenti, professionisti e impiegati di ogni sorta si sono ritrovati da un momento all’altro alle prese con piattaforme digitali e in molti hanno dovuto a fare i conti i gigabyte disponibili, mettendo così in risalto il problema del divario digitale e dell’accesso a Internet senza limiti di tempo. Queste piattaforme ci aiutano a continuare a lavorare, e a fare lezione, ma le videoconferenze e le attese davanti al monitor prosciugano le nostre energie. Ci rendono esausti. Lo schermo si blocca. Siamo subissati dalle notifiche. Decine di persone che ci guardano. I lunghi silenzi imbarazzanti. Sono tutti elementi che provocano stress, e alla lunga stanchezza, e fatica. È difficile da riconoscere, si insinua nelle nostre menti, come un effetto collaterale che complica la nostra vita sociale. «Stiamo sperimentando gli effetti della fatica digitale», racconta a Rivista Studio Gianpiero Petriglieri, professore di Organizational Behaviour, all’Institut européen d’administration des affaires (Insead), psichiatra e psicoterapeuta, che si occupa di qualità sul posto di lavoro e processi manageriali. Gli esperti concordano, e non da poco per la verità, che le interruzioni e i rallentamenti legati alla comunicazione in videochat possono provocare nei partecipanti un senso di isolamento e inquietudine. Un solo ritardo al telefono o in videoconferenza di 1,2 secondi, fa in modo di percepire l’interlocutore come meno amichevole o concentrato, rileva uno studio del 2014. Da tempo, chi da anni lavora in remoto ne riconosce gli effetti sulla propria vita e relazioni. «Le interruzioni e i vuoti comunicativi vengono assiduamente compensati dai nostri sensi con un enorme sforzo. Tutto questo, stanca», spiega Petriglieri, «Le pause che costituiscono il ritmo di una normale conversazione faccia a faccia, in una videoconferenza provocano ansia per il malfunzionamento della tecnologia: mettono le persone a disagio. Siamo confinati nel nostro spazio, in un contesto pandemico che può provocare crisi di ansia, e il nostro unico luogo per interagire è la finestra di un computer o lo schermo di uno smartphone».«Le videoconferenze richiedono un enorme sforzo», continua l’esperto, «e si innesca così l’effetto della dissonanza cognitiva: l’esperienza di due sentimenti opposti vissuti allo stesso tempo. Una situazione che diventa sempre più difficile. E la videoconferenza è una esperienza di continua dissonanza: mentre l’occhio registra la vicinanza, il corpo percepisce l’opposto, la lontananza. Questo attiva un senso di perdita. E la perdita è sempre faticosa. È simile all’esperienza del lutto. Dobbiamo elaborare, consciamente o meno, la perdita degli altri, e ritrovarli ricostruendo un legame su un monitor. Nel contesto del lockdown da pandemia, utilizziamo la videochiamata non solo per sentire un amico lontano, ma la dobbiamo usare con tutti. Tutta la nostra vita sociale si è trasferita davanti a uno schermo. La videoconferenza è diventata un obbligo, non una scelta. Non importa se lo chiami virtual happy hour, è sempre una riunione, perché molti usano per la vita privata gli stessi strumenti digitali che usano per lavoro».C’è un’altra questione importante: l’effetto del palcoscenico. «Partecipando a un incontro a distanza si deve fare i conti con il fatto che spesso decine di persone ti stanno guardando. Ti fissano proprio come se fossi in un palcoscenico. Per molti di noi questo costituisce un enorme fattore di stress. La cosa peggiore in tutto questo è proprio che tu stesso sei parte di questo pubblico che ti sta guardando. E si traduce nella strana sensazione dell’impulso continuato a controllare il proprio comportamento. È un meccanismo molto depersonalizzante», spiega ancora Petriglieri. Questo senso di affaticamento si protrae anche oltre l’orario di lavoro, per questo gli esperti consigliano di spegnere la videocamera appena possibile, di mettersi di lato e non in posizione frontale davanti all’obbiettivo, di utilizzare le e-mail più spesso, e anche di attivare la funzione «non disturbare» alla fine di una giornata di lavoro in remoto. Il distanziamento sociale imposto dalla pandemia, per proteggere la salute dei lavoratori, potrebbe diventare anche una buona motivazione per incentivare le imprese che assumono in remoto, «ma non vorrei che il cambiamento renderà l’ufficio solo una “questione per pochi”, dedicato a un gruppo manageriale ristretto, con il rischio che le aziende assumeranno in remoto uno stuolo di freelance, sottopagandoli», conclude Petriglieri. «Molti dei lavoratori, tra cui quelli con lavori più usuranti, sono tagliati fuori da tutto questo – dalla manifattura, ai trasporti, al commercio, alla salute e molti altri – non possono lavorare da casa e devono fare i conti con una “fatica analogica”. Eppure la pandemia ha mostrato quante compagnie possono funzionare in modo adeguato, addirittura con successo, senza mettere tutti i lavoratori nello stesso ufficio», ha scritto Juliette Kayyem sull’Atlantic. E avverte: «La cultura aziendale sparirà fino alla scoperta di un vaccino: molti di noi non torneranno in ufficio per un bel pezzo». Il lavoro in remoto può diventare una questione difficile: «il problema non è solo tecnologico, è anche manageriale: ma si può risolvere», come dice Cal Newport sul New Yorker, professore di Computer science alla Georgetown University, raccontando la storia di Jack Nilles, fisico e ingegnere, che voleva risolvere il problema del traffico con “uffici satellite”, autore di The Telecommunications-Transportation Tradeoff (1976) e colui che ha coniato il termine telelavoro quando ancora non c’erano i computer. «Nilles immaginava la sparizione totale dell’ufficio. Per molte persone il rito del pendolarismo – vestirsi, uscire, prendere la macchina o i mezzi – serve come distacco e preparazione per la giornata di lavoro che si svolge fuori di casa. Il piacere della vita d’ufficio, il luogo in cui molti adulti interagiscono tra loro, probabilmente è codificato nei nostri geni, da millenni di cooperazione (…) Senza questi fattori, diventa difficile fare una distinzione tra la vita lavorativa e quella personale. Il tempo di lavoro si disperde, si dilata, e così il tempo libero è meno puro». «In aprile, una ricerca di Gartner ha rilevato che tre quarti delle compagnie ha pianificato di aumentare la forza lavoro in remoto in modo permanente», prosegue Newport, «e in un altro studio di Gallup, quasi il 60 per cento degli intervistati ha dichiarato che vorrebbe continuare a lavorare in remoto dopo il lockdown e la chiusura di uffici e scuole. Per loro, il vero beneficio a lungo termine è una vita più flessibile, con maggior tempo libero e per la famiglia». Jack Dorsey, Ceo di Twitter, con un e-mail, ha annunciato ai dipendenti che chi vuole potrà lavorare da casa «per sempre». In un comunicato stampa, la responsabile delle risorse umane di Twitter ha dichiarato: «Non so se la compagnia tornerà mai come prima. Penso proprio che non ritorneremo indietro». «I cambiamenti prodotti dalla pandemia saranno più sfumati. Questo non significa, penso, che i loro effetti saranno piccoli», scrive ancora Newport. «Non tutte le compagnie abbracceranno il lavoro in remoto così totalmente ma per proteggere la salute dei lavoratori, molte aziende non avranno altra scelta se non quella di aumentare il telelavoro. E anche se risolveranno le sfide logistiche, dovranno confrontarsi con quelle psicologiche». La “fatica digitale”, insomma, è qui per restare.
Martino Galliolo 10 Giugno 2020