Un elemento radicale, della condizione di nonna e nonno è la differenzia profonda rispetto a quella di madre e padre, una particolarità che non viene mai evidenziata, forse perché rinvia a una genealogia animale, cui per certo versi apparteniamo, ma che non vorremmo mai riconoscere.
Nel regno animale troviamo innumerevoli esempi di genitorialità, sia materna sia paterna, ma i nonni non esistono in nessuna specie.
La “nonnità” è un’invenzione esclusivamente umana. Ciò significa che i condizionamenti biologici, che incidono sulla funzione materna e paterna di procreare e allevare i cuccioli umani, non agiscono su quella successiva di genitori dei propri figli divenuti a loro volta genitori.
Mentre si può decidere se diventare papà e mamma, nessuno può scegliere di diventare nonno e nonna.
L’evento ci riguarda ma non dipende da noi: altri l’hanno provocato coinvolgendoci senza chiedere il nostro assenso. L’adesione al programma è data per scontata. Ma non lo è perché, nella vita, nulla è mai garantito. Così come ci sono genitori naturali che si possono definire un “non papà” una “non mamma”, allo stesso modo esistono “ non nonni”. Ma, per fortuna, sono una minoranza mentre i nonni che apprezzano la prospettiva che si delinea mentre altre si stanno chiudendo, rappresentano la maggioranza.
Ma prima di navigare nell’arcipelago “nonni” vorrei sottolineare la libertà che deriva dal fatto di non subire condizionamenti biologici. Di fatto, la consanguineità, nel giro di due generazioni si diluisce e, con i nipoti, si è parenti più simbolici che naturali, un po’ come accade nelle adozioni.
Che le radici profonde dell’istinto riproduttivo non giungano sino ai nonni regolando i loro comportamenti incrementa le possibilità di esercitare liberamente, creativamente le relazioni con i nipoti, di esplicitare il proprio temperamento, di abbandonarsi alla fantasia, di sperimentare il piacere di fare ciò che si vuole e non soltanto ciò che si deve.
Tanto più che l’educazione è un compito che spetta ai genitori mentre a noi nonni, fermi i valori fondamentali, resta piuttosto la possibilità di autorizzare piccole trasgressioni, di concederci innocue complicità.
La “nonnità” rappresenta inoltre una possibilità, dopo quella offerta dall’essere genitori, di rivivere attraverso i nipoti la condizione di figlio che, in certi casi (più o meno in tutti nella misura in cui la domanda d’amore è incolmabile) è stata contraddistinta da carenze affettive.
Richiamando l’attenzione su una seconda o terza volta offerta dalla vita per saturare le carenze della relazione fondamentale adulto – bambino, mi riferisco al paradosso dell’amore che consiste nel donare ciò che non si ha.
Come aveva già rilevato Platone noi siamo sfere dimidiate alla ricerca della metà mancante. E’ quindi la carenza, il senso di vuoto, che ci spinge ad amare.
Diotima, nel dialogo “Il Simposio”, invitata (evento unico nella cultura antica) a parlar ’amore, definisce Eros “figlio di povertà e di espedienti”. Solo amando l’altro possiamo ritrovare l’unità perduta, la completezza agognata, perché in amore dare e ricevere si confondono.
Nel mio caso, come ho rievocato in “Una bambina senza stella”, ho saturato le ferite inferte dal disamore materno amando figli e nipoti. Per cui mi sento, nonostante un’infanzia difficile, libera dalle emozioni negative del rimpianto e del rancore.
Una riparazione, come direbbe Melanie Klein, che si può attuare sia nella maternità sia nella “nonnità”. Più estesamente in quest’ultima in quanto, non dovendo sottostare a impulsi biologici, anche la disponibilità a donare della persona che non ha nipoti propri si può realizzare in forme simboliche.
In tempi di biotecnologie, l’aspirante madre (spesso accusata di volere un figlio a tutti i costi) rifiuta di sublimare il desiderio di fare un bambino riconoscendo che il suo corpo ha esigenze più concrete: che desidera l’attesa, il grembo pregno, il contatto corpo a corpo con un piccino tutto suo. La sterilità, intesa come impossibilità di generare, richiede una elaborazione del lutto che, di contro, non è necessaria alla nonna mancata.
La donna che non ha nipoti propri può infatti “adottarne” altri prendendosi cura di loro, colmando le loro carenze, sostenendo le loro fragilità. Esempi: a Parma, Alida, una professoressa in pensione il cui figlio unico è rimasto volutamente scapolo, si è collegata ad altre tre colleghe per offrire ai ragazzi immigrati lezioni di recupero durante l’anno scolastico.
Presso il Vidas, gruppi di volontarie di una certa età offrono di accudire a domicilio, dopo un corso preparatorio, malati terminali adulti o bambini.
In alcuni quartieri delle città di provincia, squadre di nonni naturali o che si considerano tali, proteggono il percorso casa-scuola degli alunni, presidiando gli incroci di maggior traffico e controllando la presenza di estranei pericolosi.
La disponibilità ad attuare comportamenti da nonni indipendentemente dall’avere o meno nipoti propri è ancor più spontanea per gli uomini, meno sottoposti a richieste interiori, più abituati a vivere rapporti simbolici.
Sempre seguendo la constatazione iniziale secondo cui gli animali non conoscono la posizione di nonno e nonna, che è invece valorizzata nella cultura occidentale (basta pensare ai termini Grand-mère e Grand-père in francese; Gros- mama und Gros-papa in tedesco, Grand-ma and Grand- pa in inglese) dobbiamo ritenere che in quest’ambito (sottratto alla natura), la società e la cultura svolgano un ruolo essenziale. Tuttavia, non vi sono in proposito ingiunzioni assillanti. Chi non ha nipoti naturali e non ne desidera di simbolici può sempre fare dell’altro. Nessuno glielo imputerà.
Dopo questa premessa liberatoria, sono così giunta a svolgere il tema che mi avete assegnato: “Nonni di ieri, di oggi e di domani”.
Premetto che il modo con cui l’essere nonni viene vissuto, narrato e considerato dalla società è strettamente connesso alla concezione vecchia e differente suddivisione per uomini e donne, oltre che per classi sociali, sottogruppi culturali e tradizioni locali.
Nelle società aristocratiche il nonno rappresenta l’albero genealogico, il casato, la successione araldica. Come riscostruisce Eva Cantarella attraverso gli ordinamenti giuridici della Roma imperiale: i figli adulti, anche se coniugati e a loro volta genitori, dipendevano completamente dall’autorità paterna. Il Pater Familias poteva obbligarli a sposarsi, divorziare, risposarsi secondo un gioco di alleanze di cui erano semplici pedine. Solo alla morte del capo famiglia i discendenti (che potevano essere diseredati in qualsiasi momento) divenivano padroni della propria vita. Ciò non toglie che accanto alla paura del nonno vi fossero anche ambivalenti sentimenti di affetto e di gratitudine. Quanto alla nonna, un interessante rilievo storico-culturale, descritto dalle storiche della medicina medioevale Chiara Crisciani e Jole Agrimi, è rappresentato dal timore che lo sguardo maligno della nonna, della vetula, potesse uccidere in neonato in culla. Una sorta di malocchio che rinvia, alla strega delle favole, una presenza maligna e minacciosa nel mondo pre-moderno e, per quanto riguarda l’immaginario condiviso, una figura ancora attuale, che i bambini comprendono immediatamente.
In ogni caso, nelle relazioni umane, la vicinanza produce sempre motivi di attrito, di ambivalenza e di conflitto. Siamo, come sostiene il filosofo Schopenhauer, come i porcospini, che se stanno troppo vicini si pungono, se stanno troppo lontani hanno freddo. Se nelle società aristocratiche prevalgono la lontananza e il freddo, in quelle borghesi, costituite sui valori dell’intimità, della privacy e degli affetti, predomina invece il timore di pungerci.
di Silvia Vegetti Finzi – Incontro organizzato da Donne In